La memoria in Giorgio Colli
Alessandro Fersen
Il testo di Fersen è tratto da "Giorgio Colli. Incontro di Studio", a cura di S. Barbera e G. Campioni, Franco Angeli, 1983.
Il tema della memoria in Giorgio Colli, di cui dovrei parlare, vorrei personalizzarlo: e ricordare anzitutto il grande amico e il sodalizio quasi clandestino che ci ha uniti per più di trenta anni. Sento un certo disagio, ad espormi in prima persona (c'è sempre, in questi casi, un rischio di esibizionismo da cui vorrei rifuggire): ma, non posso, vedendo tanti giovani qui in sala, non rendere testimonianza di una personalità come quella di Colli vista nei suoi aspetti più umani. Questo mio intervento sarà quindi costellato di elementi biografici, che io offro alla legittima curiosità di molti, in particolare dei discepoli di Colli che ho già conosciuti l'anno scorso nel corso di un semmario, qui a Pisa. Non ho preparato una relazione scritta: perdonerete il tono improvvisato del mio intervento.
Il mio incontro con Giorgio ha avuto luogo in un campo di internamento in Svizzera. Era un campo-scuola dove, paradossalmente, io insegnavo filosofia e lui insegnava latino e greco. Di sera, alla mensa del « campo », sbocconcellando patate (l'alimentazione-base nei campi di internamento svizzeri erano le patate) intingendole nel sale, ha avuto inizio la nostra lunga, ininterrotta per anni, conversazione. Tema di partenza: i presocratici. Era l'autunno del 1944: Giorgio si era laureato qualche tempo prima; io ormai da 10 anni.
La mia tesi « Universo come gioco », pubblicata poi da Guanda, portava come epigrafe un frammento di Eracito:
Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων παιδόϛ ἡ βασιληίή, l'eternità -o il tempo- è un fanciullo che gioca ai dadi; regalità di fanciullo (« reame » traduceva Giorgio). Subito si è avviato un dibattito fra un Giorgio Colli che a quei tempi prediligeva Parmenide e 'le mie preferenze eraclitee. In Parmenide nella staticità dell'essere parmenideo, lui intravvedeva un simbolo di perfezione; la perfezione non ha bisogno di moto, di mutamento: è paga in sé e di se stessa. Già allora, in questa sua posizione, si poteva leggere l'aspirazione a un modello di saggezza che poi avrebbe caratterizzato tutta la sua vita. Io ero sul versante opposto. L'« Universo come gioco » si presentava come una interpretazione in chiave moderna del frammento che poco fa ho citato: l'universo concepito come sfoggio di energie « inutili », di energie puramente lussuose, in continuo, drammatico divenire (secondo un'immagine di Eraclito, che è quella della tradizione filosofica). Così sono cominciati i nostri incontri serali che si prolungavano per una parte della notte. Quando avevamo qualche lira ottenevamo il permesso di uscita dal campo, andavamo al caffè Olimpia di Lugano (Trevano è un castello fuori città), ordinavamo caffè completi con burro e marmellata (che a Giorgio piacevano moltissimo). Alla luce 'livida del neon (credo fossero i primi neon che si vedevano in giro) osservando il burro che spalmavo sul panino una volta ricordo cli aver detto: « Guarda, sembra verde questo burro ». Decenni dopo, dedicando una copia della Filosofia dell'espressione, Giorgio ha scritto: « Per concludere le discussioni del burro verde ». C'è in questa dedica, che mi è molto cara, oltre al ricordo di tanti anni di speculazioni comuni, quel filo d'ironia, quel distacco aristocratico, che era una delle sue qualità ineonfondibili.
Dopo il '45 si ritornò in Italia, io presi la via del teatro, le nostre strade si sono divaricate. Ma Giorgio Colli rimaneva un punto di riferimento fisso nella mia vita. Pur nelle turbolenze della vita teatrale, la sua presenza mi aiutava a proseguire, quasi inconsapevolmente, una mia meditazione sotterranea, che andava poi periodicamente a confrontarsi con l'evoluzione filosofica sua.
Ricordo, ancora a proposito di Lugano, e per dare di lui un immagine più precisa, che quella sua scelta parmenidea non significava astrattezza, fuga dal reale. Giorgio aveva anzi coniato un termine brutto, a dir la verità, ma estremamente pregnante; parlava di « vissutezze ». Oggi si parla molto di vissuto, di vissuti individuali, sociali: già allora con il termine « vissutezza », che lui usava con un sorriso, Colli dimostrava tutto il suo interesse, la sua attenzione alla vita, prefigurando così quell'equilibrio meraviglioso fra speculazione agli estremi limiti delle possibilità umane di conoscenza e quell'amore concreto per la vita, che avtebbe poi informato il suo modo di essere, i suoi rapporti così aperti con il prossimo. « Vissutezze » come esperienze di vita: direi che quel vocabolo preannunciava quella che sarebbe poi diventata la nozione di « immediato » nella Filosofia dell'espressione.
Questo era il Colli del 1944. Negli anni, nei decenni successivi, ci si rivedeva periodicamente a Firenze. Non si parlava mai difatti privati: immediatamente riprendevamo il nostro dibattito al punto in cui era stato interrotto la volta precedente, magari tre mesi prima, sei mesi prima, sempre registrando le reciproche modificazioni, gli sviluppi, le nuove ipotesi.
I ricordi che si affollano alla mia mente sono intensi. Ricordo l'enorme concentrazione durata, credo, un paio di anni durante i quali Giorgio formulava la sua critica definitiva alla logica matematica. Ricordo che, giunto a questo traguardo, lui voleva rinunziare alla scrittura; diceva: « Sono giunto alle mie conclusioni: che senso ha metterlo per iscritto? » Ricordo le mie insistenze accanite: forse sono servite a qualche cosa... Ma quel suo atteggiamento lo accostava - ripensandoci ora - ai « sofoi », ai saggi che avevano preceduto l'avvento della filosofia.
Dopo anni d'incontri, qualche cosa di nuovo si era verificato fra di noi: un accostamento progressivo fra la sua esperienza speculativa e la mia esperienza teatrale.
E vengo qui, secondo quanto promesso, al tema della sua memoria.
Marco Colli, figlio di Giorgio e mio discepolo ed assistente nello studio teatrale da me diretto a Roma, ha puntualizzato, in un'intervista fattami per un documentario televisivo sul padre, il punto d'incontro che fra Colli e me si è operato a proposito della memoria. Marco si è detto figlio di un pensatore che, negli ultimi anni, vedeva nella memoria la fonte di ogni conoscenza umana (ricordate le prime pagine della Filosofia dell'espressione) e si è detto discepolo di un uomo di teatro, che da più di venti anni lavorava nel suo laboratorio sulla memoria, elaborando tecniche sempre più approfondite e sofisticate di autoconoscenza e di espressione teatrale basate sulla memoria.
Oggi io trovo straordinaria, nella nostra trentennale amicizia, questa finale convergenza di un'alta speculazione filosofica quale la sua, con il mio lungo itinerario sperimentale, diretto verso il profondo, verso il recupero di una memoria ancestrale: un itinerario che sfocia nelle tecniche del «mnemodramma». Un che, già di per sé, qualifica un progetto teatrale e culturale, assai vicino alle idee di Colli.
Nell'estate del 1978, Giorgio, su mia preghiera, venne a Roma per una «conversazione » da pubblicare su un opuscolo edito dallo Studio in occasione della prima presentazione pubblica in Italia delle tecniche del «mnemodramma »: fu, credo, uno dei suoi ultimi interventi. Giorgio aveva assistito qualche volta al mio lavoro nello Studio; parlando, in questo opuscolo dal titolo La dimensione perduta, a proposito della memoria come contatto con la nostra identità profonda, egli si esprime in questi termini (l'intervista è stata registrata dal vivo):
...Vorrei precisare che questo qualche cosa che appartiene ad ognuno e che attraverso la tua tecnica viene scoperto, non appartiene soltanto all'individuo, ma - secondo me - costituisce, se posso dire così, l'essenza del mondo. Ecco il punto. Penetrando in questa parte più intima di noi stessi attraverso queste esperienze, noi non soltanto ci spogliamo di tutte le sovrastrutture della vita quotidiana, di quello che noi crediamo reale e che scopriamo non essere più reale, nel senso che l'interesse che portiamo per le cose che ci stanno intorno viene in questo momento a cadere totalmente, e noi scopriamo questo «noi stessi », come qualcosa che non ha nulla a che fare con quella che si manifesta quotidianamente come la nostra personalità limitata: ma questo « noi stessi » profondo, a un certo punto, non è neanche qualcosa d'individuale. Ed è in questo che consiste 'la comunicazione teatrale, io penso, cioè nell'identificazione di questo « noi 'stessi» con l'essenza del mondo. È un discorso molto generico - me ne rendo conto - ... Voglio dire che questo « io » più profondo che viene a galla, secondo me, va al di dà della nostra personalità e questo è 'l'aspetto « divino dell'esperienza teatrale ».
Spero sia stato interessante per voi ascoltare queste idee di Colli sul teatro.
Ma, devo qui aggiungere, la convergenza fra noi due sulla centralità della memoria nella cultura umana si articolava ancora una volta - come ai tempi del campo d'internamento di Trevano - in due posizioni differenziate (era questo il fascino dei nostri incontri e dei nostri dibattiti). La memoria, di cui parlava Colli e quale traspare anche dalla citazione che ho letta, è la «Mnemosyne» orfica: divinità tutelare, cui le anime dei morti si avvicinano per dissetarsi bevendo « fredda acqua » alla sua « palude » ultraterrena - come dicono le laminette d'oro trovate nelle tombe della Magna Grecia -. La « Mnemosyne », che emerge invece dal mnemodramma, è coinvolta in un perenne conflitto con Chronos, con il tempo: ed è una memoria drammatica, che si scatena negli eventi di « transe » dionisiaca legati alle mie tecniche teatrali (o para-teatrali). Daccapo, a trenta anni di distanza, riaffiorava così - nelle nostre discussioni dell'estate del 1978 - quella differenziazione culturale che a Trevano si era cristallizzata nella contrapposizione fra la quiete parmenidea e il pòlemos eracliteo.
Se ne parlava molto fra di noi in quell'ultima estate e in quell'autunno del 1978, in cui i nostri « incontri » si erano fatti più fitti e intensi. Riconoscevo, in questi contatti, il Giorgio di Trevano: la sua scelta di alta solitudine bilanciata da quell'amore per la vita che lo rendeva disponibile a qualsiasi incontro umano. È difficile parlare di lui come amico, della sua straordinaria dolcezza, racchiusa in quel velo di riserbo; delle sue delicatezze nel 'limite del reciproco rispetto che si era 'instaurato fra di noi.
In quella estate-autunno, noi si andava per trattorie nei dintorni di Firenze, conversando dibattendo per ore ed ore. Stavamo per varare un grande progetto: quella rivista di alta cultura, di cui avevamo tanto favoleggiato a Trevano. Pochi giorni prima della sua morte ricordo una sua telefonata con quella voce intrisa di giocondità e con quella cadenza piemontese che non lo aveva mai abbandonato: « Allora, la facciamo questa rivista? » - «Certo che la facciamo: dammi tempo due mesi ». Poi la telefonata di Marco, la mia corsa a Firenze. La vita è diventata più difficile da vivere, dopo di allora.
Ecco, ho voluto che anche queste cose si sapessero di lui, della personalità straordinaria di questo saggio che è passato in mezzo a noi, lasciandoci un insegnamento che non era esclusivamente confinato nell'ambito filosofico.
"Giorgio Colli. Incontro di Studio", a cura di S. Barbera e G. Campioni, Franco Angeli, 1983