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"Sull'Empedocle di Giorgio Colli", il nuovo saggio di Federica Montevecchi

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Archivio Giorgio Colli - Firenze - Galleria immagini

Federica Montevecchi è tra le principali studiose di Giorgio Colli. Oltre al suo fondamentale libro Giorgio Colli. biografia intellettuale (Bollati Boringhieri, 2004) ha pubblicato Empedocle d'Agrigento (Liguori, 2010), edizione critica con testo originale a fronte degli scritti del filosofo.

Con piacere segnaliamo la pubblicazione di questo breve saggio edito da Luca Sossella Editore che fonde questi due filoni di ricerca in una rilettura dell'Empedocle di Giorgio Colli, offrendo nuovi ed inediti spunti di riflessione.

Abbiamo chiesto a Federica Montevecchi di parlarci di questo libro e di Giorgio Colli. Qui sotto potete leggere il testo dell'intervista.

Nei prossimi giorni sono in calendario le seguenti presentazioni del libro con la partecipazione dell'Autrice:

 

BOLOGNA, 20 giugno, dalle ore 19.00

Libreria Modo Infoshop, via Mascarella, 24/b, Bologna (@ModoInfoshop / Facebook / tel. 051 587 1012).

L'Autrice ne parla con Barbara Chitussi, Andrea Cavalletti e Franco Bacchelli.

 

AULLA, 23 giugno, ore 21.00

Sala Capitolare di San Caprasio, Aulla (Massa-Carrara).

L'Autrice ne parla con Paolo Carbone, storico, e Marina Pratici, poetessa e assessore alla cultura.

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INTERVISTA A FEDERICA MONTEVECCHI

di Alberto Banfi

Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a scrivere questo libro? Mi pare emerga l’esigenza di approfondire ed avvalorare quella coerenza di fondo, spesso richiamata a proposito di Colli, tra prassi e teoria. Tra la sua intima attività di pensatore e quella pubblica di editore e pedagogo. È così? Ci sono altri aspetti importanti che hai voluto chiarire in questo libro?

La coerenza fra prassi e teoria è certamente un aspetto decisivo nella vita di Giorgio Colli, che ho già trattato ampiamente e più volte: in questo piccolo libro mi pareva il caso di ricordarla - semplicemente a mo’ di introduzione - pensando a chi non conosce Colli e sopratutto al tempo misero che stiamo vivendo, in cui la rinuncia alla gratuità e alla libertà della conoscenza è preoccupante. Però la ragione prima che mi ha spinto a scrivere riguarda il saggio che dà il titolo al libro che rappresenta la conclusione, almeno per ora, di una parte di un percorso di ricerca e speculativo sulla forma di pensiero polare durante il quale ho trovato necessario lavorare prima su Colli e poi su Empedocle, che in queste pagine ho voluto trattare insieme, a partire dagli scritti di Colli, mostrando la loro vicinanza e anche il mio debito nei confronti di Colli.

Negli ultimi anni, forse anche grazie al grande lavoro di pubblicazione dei postumi giovanili curati dal figlio Enrico, l’interesse di Colli sembra essersi via via spostato dal Colli editore-interprete di Nietzsche al Colli studioso dei Greci. Soprattutto di quel momento aurorale che ha segnato l’avvento della Sapienza e la nascita della filosofia. Massimo Cacciari ha di recente sottolineato l’originalità e la profondità dell’interpretazione colliana di Parmenide. Ora il tuo Empedocle. Quali sono secondo te (tra l’altro sei autrice di un’edizione critica: “Empedocle d’Agrigento”, Liguori 2010) gli aspetti filosofici più interessanti nel sapiente agrigentino che emergono nella lettura di Colli? E quali possono essere strettamente legati all’elaborazione teoretica di una Filosofia dell’espressione?

Sì, trovo da sempre particolarmente acuto il Colli studioso dei Greci e quanto scrive su Empedocle, in particolare nella Natura ama nascondersi e nelle lezioni pisane, lo rivela in modo chiaro. Basti pensare al fatto che la lettura di Colli getta una nuova luce - e la si dovrebbe prendere in considerazione - sull’attuale dibattito, non solo italiano, relativamente alla dottrina gnoseologica di Empedocle, precisamente all’interrogativo rispetto al ruolo preminente giocato in essa dai sensi o dalla ragione. È un dibattito che muove da alcune affermazioni riconducibili alla necessità definitoria di Aristotele, rintracciabili nella Metafisica e nella Fisica, che purtroppo sono tuttora avvallate: Colli le mette in discussione valorizzando quanto scrive Teofrasto tanto da riconoscerlo - negli anni ’40 del Novecento - una fonte più affidabile del suo maestro e affrancandolo quindi dalle letture sclerotizzate che, a partire da Zeller, lo pongono in sostanziale continuità con Aristotele. Se si pensa che la cosiddetta riscoperta di Teofrasto è collocata ufficialmente negli anni ’60…Teofrasto dice che il principio sensibile, l’arche, è tanto la materialità sensibile quanto la sua essenza e Colli chiarisce, infatti, come nella dottrina empedoclea sia essenziale il passaggio dalla sensazione passiva alla sensazione attiva. Si tratta di un passaggio che avviene quando il soggetto compatto nella sua individualità, cioè senza che sia privilegiato un senso rispetto a un altro, riesce a estendere la sua conoscenza cogliendo l’unità di ciascuna individuazione oggettuale. Questa possibilità può essere ricondotta alla qualità della forza interiore che si esprime nell’intuizione e che tende ad estendersi, supportata dalla struttura biologica, oltre l’individuo. Va da sé che la polarità fra forza vitale interiore e struttura biologica esteriore dà conto della complessa tensione metafisica fra la rappresentazione fenomenica e una dimensione che la trascende, pur riaffiorando in essa. Tale tensione fa pensare a quella fra espressione e immediatezza propria filosofia dell’espressione, a dimostrazione dell’importanza che i Greci rivestono nella dottrina teoretica colliana, nella Filosofia dell’espressione.


Nel capitolo su Teofrasto parli di “una conoscenza fondata sul sentire e la libertà” e fai un diretto riferimento al poeta-filosofo Hölderlin. Ce ne puoi parlare? Che importanza ha avuto Hölderlin per Colli? Riguarda solo l’affinamento di un particolare modo di leggere i testi antichi o, più in generale, per Colli è anche l’esempio concreto di come sia stato possibile - anche in età moderna – coniugare ricerca e vita?

Mi pare che il sentire comune sia la condizione per capire davvero un pensiero, che rende liberi dalla riverenza rispetto a posizioni condivise o riconosciute e che consente di trovare affinità  tanto vicine quanto lontane temporalmente. Hölderlin possiede, a parere di Colli, la stessa sensibilità dei Greci e in particolare di Empedocle, tanto che riesce a riscattarlo dalla valutazione puramente descrittiva, quando non negativa, propria della tradizione storiografico-filologica. L’adozione di una prospettiva eretica rispetto a tali studi permette a Hölderlin di vedere proprio nel limite sottolineato da quella tradizione la cifra del pensiero empedocleo, ovvero la polarità fra alogon e logos, fra il mondo mitico-simbolico e la razionalità che va dispiegandosi, fra poesia e speculazione. In più il modo di vivere e lo stile dell’opera, specchio uno dell’altro, sarebbero una conferma ulteriore della sensibilità greca di Hölderlin; una sensibilità che sembra propria anche di Colli se si pensa che nei suoi scritti di estetica Hölderlin afferma che il poema tragico è espressione dell’interiorità più profonda poiché in esso si manifesta l’elemento divino che il poeta sente e sperimenta nel proprio universo. Non a caso per Colli Der Tod des Empedokles rappresenta il culmine del pensiero poiché si propone la restaurazione di Afrodite, dell’unità, attraverso l’azione dell’uomo-dio, attraverso la pluralità, cioè attraverso il mondo dell’espressione.   In altri termini, Hölderlin, ponendosi al di là della cesura platonica fra filosofia e poesia, ritiene fra loro inseparabili la forza priva di limiti della vitalità, l’aorgico, e quella limitante e plasmante, l’organico, riproponendo l’esperienza enigmatica di come l’unità possa uscire da sé e a se stessa contrapporre la pluralità: di questa esperienza, come mostra Der Tod des Empedokles, il poeta è tanto protagonista quanto tramite perché è colui che scrive la tragedia e al tempo stesso ne è parte, tanto da esserne definito.

Uno dei nodi problematici nella filosofia di Giorgio Colli è, mi pare, il rapporto tra oralità e scrittura. Colli evitò di pubblicare i propri scritti per decenni. E quando vi ritornò lo fece attraverso uno stile che non riconosceva il linguaggio filosofico moderno che si era sclerotizzato nei secoli nel tentativo di riallacciare, e far risuonare all’interno della propria parola scritta, il nesso tra immediatezza (o “vissutezza”) ed espressione.

Qual è la tua opinione in proposito?

Il rapporto fra oralità e scrittura, che è poi quello dello stile, nella filosofia di Colli è un ambito da studiare. Va da sé che la parola per lui sembra dar conto di un sentire appunto, non lontano per certi versi dalla poesia, cioè da quella parola protetta dalle Muse (che garantiscono ai loro portavoce di poter accennare a una natura altra) e allusiva della dimensione immediata cui il linguaggio è separato e unito a un tempo. Mi pare che Colli segua questa convinzione nello scrivere di filosofia: la parola scritta che si mantiene vicina alla vitalità da cui proviene non dà soltanto conto di un pensiero ma è capace di fecondarne di nuovi, a dimostrazione della sua radice dialogico-dialettica che la rende ancora vitale, per quanto non più viva. Si tratta di un esperimento davvero difficile, perché si corre molto facilmente il rischio dell’enfasi. Certo è che si tratta di un rischio più che accettabile se si pensa ai linguaggi paludati e alla mancanza di stile propri dei ‘saggi filosofici’.  


Mario Perniola nel suo saggio "Estetica italiana contemporanea" (Bompiani, 2017) fa sorprendentemente dialogare Colli con diverse correnti filosofiche degli anni ’70 legate alla contestazione e al femminismo (Vattimo, Cavarero, Facchinelli,...). Ne emerge uno sfondo estetico comune e il tentativo di riannodarsi a quel “fondo della vita” occultato dalla filosofia per secoli. Ma, al di là delle specifiche differenze, mi sembra interessante sottolineare come l’influenza di Colli, per vari versi misteriosa e che travalicò gli stretti argini dei filosofi di professione, non dipese da un atteggiamento di diretto scontro politico tipico di quel momento (che avrebbe determinato senz’altro la sconfitta del filosofo come per Colli insegna la vita di Platone) bensì dal carattere inattuale ed apollineo del suo filosofare: “Anche per Colli”, scrive infatti Perniola, “la filosofia è una macchina da guerra, ma l’unica possibilità di vittoria sta nel colpire da lontano, rimanendo sulle alture…”.

Cosa ne pensi? In che modo, secondo te, l’inattualità di Colli ha potuto agire sul presente?

Quanto scrive Perniola è importante perché sarebbe sempre più opportuno far dialogare Colli con la contemporaneità e penso in particolare a filosofi come Wittgenstein, oltreché a nomi italiani. In tal senso aveva iniziato a muoversi, anni fa, Luigi Cimmino, poi però non c’è stata continuità di studi… Penso che sia importante porre Colli in dialogo con le filosofie contemporanee sopratutto perché si potrebbero trovare nuovi punti di vista da cui considerare il suo pensiero, non certo per ridimensionare la sua inattualità. Detto questo, ritengo che l’inattualità di Colli abbia agito sul presente, più che rispetto a dottrine filosofiche specifiche, in un senso intellettuale, cioè in modo ‘critico’ rispetto al suo tempo. Ed è una forma di critica radicale che si giustifica nell’azione, non nell’intervento pubblico: Colli, infatti, adottò un modo di vivere e di intendere il rapporto con la conoscenza del tutto estraneo rispetto a quelli condivisi. Basti pensare alla sua attività editoriale che tu, Alberto, hai studiato in modo eccellente, che rappresentò nei fatti la negazione di un’egemonia culturale-accademico che aveva assunto caratteri dogmatici. In tal senso l’inattualità dà conto certamente di uno stile di vita minoritario ma che possiede la straordinaria forza del punto di vista di confine, cioè quello che permette di essere, a un tempo, dentro e fuori il proprio presente.