Ricordo degli anni di Lucca
Clara Valenziano
Trascrizione dell'intervento di Clara Valenziano al convegno "In ricordo di Fausto Codino, Pietro Giorgetti, Mazzino Montinari, Angelo Pasquinelli" - Lucca 24-25 ottobre 1997.
Sono capitata a Lucca agli inizi del ’44, un anno terribile. Mia madre, che nel ’40 insegnava ad Addis Abeba, dopo una lunga prigionia in un campo di concentramento inglese, era rientrata in Italia con una nave della Croce Rossa e le era stata subito assegnata la nuova sede: Lucca, il liceo Machiavelli. Ho conosciuto una Lucca irripetibile: la città era praticamente in mano alle ragazze. La vita era ridotta all’osso, la fame e l’incertezza di uscire vivi dalla guerra ci facevano sentire tutti uguali. Il primo impatto con questa Lucca delle ragazze lo ebbi al Comune. All’ultimo piano, in un grande salone con lunghi tavoli e panche, decine di donne giovanissime erano addette alle tessere annonarie. Fu qui che venni a sapere che si poteva fare qualcosa per gli uomini nascosti nelle soffitte: andare per la campagna a raccogliere cibo. Giravamo in bicicletta con uno zaino militare sulle spalle; a sera si faceva la distribuzione. Tra me e loro c’era, però, una grande differenza: io delle persone nascoste non sapevo neanche il nome, loro le conoscevano bene, e rischiavano molto: spesso portavano l’ordine di trasferire altrove qualcuno che i fascisti stavano attivamente ricercando.
Con l’arrivo della primavera tentai di frequentare l’università, ma diventava di giorno in giorno più difficile: capitava sempre più spesso che sulla strada per Pisa fossimo fermate (eravamo sempre solo ragazze) dai brigatisti neri intenzionati a portarci via le biciclette; una volta che ci eravamo fermate a pochi chilometri da Pisa perché sulla città c’era un bombardamento, un aereo americano, staccatosi dalla formazione, si era abbassato sulla strada e ci aveva mitragliato; infine, per bombardamenti e retate, quasi nessun professore veniva più all’università.
Ma il professore di archeologia, che era di Valdottavo, aveva affisso in bacheca un biglietto in cui diceva che le lezioni erano sospese, ma che, per gli alunni lucchesi, sarebbero continuate in una casa privata fuori Lucca. Per motivi di emergenza, le lezioni di archeologia durarono poco, ma in quella casa conobbi un altro gruppo di ragazze, tutte studentesse e tutte cattoliche, che avevano organizzato anche loro una rete di solidarietà.
Venne l’estate e il fronte si fermò a Pisa. Ed è di quest’estate che ho un ricordo vivissimo: andare in cerca di cibo diventò il lavoro di ogni giorno. Partivamo la mattina presto – io trascinavo un carrettino costruitomi da uno dei miei fratelli – e stavamo in giro fino all’ora del coprifuoco. Era nella campagna che mi colpiva di più l’assenza degli uomini e – devo dirlo – era anche questa assenza che mi faceva sentire così libera. I campi erano abbandonati e noi passavamo senza ostacoli dall’uno all’altro raccogliendo frutta ed erba. Vivevamo come ai tempi preistorici della raccolta, frugavamo tra i cespugli, mangiavamo more e radici, ripulivamo coscienziosamente i filari dei vigneti. Una mattina, uscendo da Porta S. Anna, proprio sotto le mura un uomo era stato così sommariamente sepolto che un piede gli fuoriusciva dalla terra. Era un prete – mi fu detto – che aveva aiutato due giovani a fuggire dalla prigione dei fascisti; una volta, al ritorno in città ci trovammo in pieno rastrellamento: un ufficiale tedesco urlava come un pazzo per tenere a bada una folla di donne che cercava d’impedire la partenza di un camion pieno zeppo di uomini.
Ho sempre ricordato con gratitudine quelle ragazze dell’Ufficio Annonario, non solo perché insieme facevano la cosa che era importante fare, ma anche perché in quei vagabondaggi capitava d’incappare in situazioni difficili e tutte ci comportammo sempre al meglio di noi stesse.
I rapporti con i due gruppi si conclusero in modo diverso. Il giorno della liberazione vidi – e salutai con allegria – le compagne dell’Annonaria che sfilavano insieme ai vari gruppi partigiani. Le altre ragazze decisero di dare una piccola festa per ringraziare due contadini che le avevano rifornite di latte e uova per tutta l’estate. Però, nessuna di loro li invitò a ballare: l’emergenza era finita.
Ora si andava all’università con un treno che partiva alle 6,30 del mattino, oppure facendo l’autostop coi camion militari americani. Conobbi subito Linda Bimbi con la quale preparai uno dei primi esami. Era un mostro di bravura, capace di mantenere per ore la concentrazione: poteva ripetere quasi a memoria le pagine appena lette. Una volta, a lezione d’italiano, il professor Luigi Russo, furioso per una risposta irrispettosa, cominciò, a partire dalla prima fila, a usare l’interrogazione come arma impropria. Dopo una ventina di «non lo so», toccò a Linda, che rispose perfettamente. Russo scoppiò a ridere e riprese la lezione.
Conobbi Gigliola Gianfrancesco e Angelo Pasquinelli che erano fidanzati e dei quali m’innamorai subito e, per ripetere una loro espressione, «mi specchiai nei loro occhi». Gigliola univa a un aspetto e modi molto femminili (una gran capigliatura ondulata biondo-rossa, mani e piedi piccoli) una forte personalità e uno spiccato senso dell’umorismo. Angelo aveva una dote rara: era di buon carattere. Era un amico che sapeva ascoltare e – cosa del tutto inesistente a quei tempi – aveva un vero rapporto paritario con le ragazze.
Qualche tempo dopo arrivò dalla Svizzera il professor Colli, il loro amato professore di filosofia. Festeggiammo il ritorno con una memorabile cena, memorabile perché gli gnocchi, piatto forte e forse unico della serata, preparati da Anna Maria Colli detta Nou, arrivarono in tavola in forma di malloppo gommoso. Da allora divenne un’abitudine incontrarsi nel pomeriggio a casa Colli. Di questo gruppo di amici facevano parte tre delle persone a cui è dedicato questo incontro: oltre ad Angelo Pasquinelli, c’erano Mazzino Montinari e Pietro Giorgietti.
Molto presto fu deciso, per dare basi più solide alle nostre discussioni, di organizzare la lettura di testi. L’autore più letto fu Platone. Ed è comprensibile che, quando a Lucca si seppe che leggevamo il Simposio e ci banchettavamo su, la cosa fosse considerata deplorevole: del resto era vero che quasi sempre qualcuno finiva sbronzo. Il bello è che, in quegli anni, Giorgio Colli, più che appartenere alla cultura del vino, apparteneva, a mio parere, a quella del the (delle cinque, con crostini e marmellata di arance amare, un rito quasi maniacale, con petulanti querimonie contro Anna Maria, che, secondo lui, non era mai all’altezza del compito). E, a proposito di cene, quelle preparate da Anna Maria registrarono un netto miglioramento da quando, nel ’46, entrò a far parte della cerchia di amici l’estroso Nino Cappelletti (successivamente grafico alla casa editrice Adelphi), da allora e per sempre ciecamente innamorato di Giorgio Colli.
Ma se il Simposio ci rese famosi (anzi, malfamati), fu il primo dialogo che leggemmo, l’Alcibiade mi aiutò a capire quello che Colli intendeva quando diceva che dovevamo formare «una comunità di amici uniti dal vincolo della conoscenza e da una particolare qualità dell’anima». È il passo dove Socrate dice che come un occhio, se vuol guardare se stesso, deve specchiarsi nell’occhio – sede della vista – di un altro, così l’anima, se vuol conoscere se stessa, deve guardare nell’anima – sede del sapere – di un altro: deve specchiarsi, manifestarsi, esprimersi.
Questa idea dell’amicizia come capacità di amare, come fonte di conoscenza, per Colli era imprenscindibile: quello che lo appassionava di più nelle discussioni erano gli imprevisti provocati dagli scontri verbali, le emozioni che passavano negli occhi di chi parlava e di chi ascoltava, e in primo luogo le sue emozioni. Le cose si complicavano quando si cercava di chiarire di che tipo di conoscenza si andava in cerca. Agli inizi Giorgio ci divideva scherzosamente in due schiere, gli «interessati» e gli «appassionati». Gli «interessati» erano Pietro Giorgietti e io. Pietro, alto, angoloso, con una zazzera biondastra che gli finiva sempre sugli occhi, gran riempitore di tazze e bicchieri e gran conoscitore del greco antico, condivideva con me il rifiuto del «miracolo greco» – era questa l’espressione usata nei manuali del tempo –, non potevamo accettare che l’entrata in scena della storia europea, cioè del razionalismo greco, fosse ritenuto un avvenimento improvviso, gratuito, inspiegabile.
Per Colli, se non era «miracolo», era «mistero», «oscurità», «antichissima memoria che un distorto sapere ci preclude». Ma fu proprio da Colli che – in risposta alle nostre obiezioni – in una notte di simposio sentii per la prima volta porre il problema in termini concreti, e cioè, che nel VI secolo la Grecia arcaica viveva il trapasso dalla tradizione orale all’uso della scrittura e che i frammenti presocratici (gli ipsissima verba), da un lato, risentivano delle tecniche dell’oralità (tecniche per facilitarne la memorizzazione: erano espressi in versi, in sentenze, con immagini dei miti, delle religioni), dall’altro, erano stati fraintesi nel momento in cui la lingua, acquisita piena padronanza di sé, aveva reso stabile il significato di parole inventate dai presocratici per esprimere concetti astratti. E il massimo adulteratore era stato proprio Platone: i dialoghi erano un’oralità fittizia, non erano che un genere letterario.
Per ritrovare la vera sapienza antica – diceva Colli – da un lato bisognava «attraversare vastissimi campi di stoppia», cioè fare un faticoso lavoro filologico (e in questo «attraversamento» il compagno preferito era Pietro Giorgietti), dall’altro, poiché la sapienza dei presocratici era inscindibilmente legata ai miti e alla religione, bisognava audacemente sporgersi su quella «voragine oscura», espandendo al massimo la propria personalità, per intuire, per capire. E qui aiutava il vino, e protagonisti erano gli «appassionati», tra i quali il più «dionisiaco» era Enrico Ramundo, dotato anche del physique du rôle: aveva il viso di un sileno sorridente. Più che sporgersi, lui nella voragine ci si tuffava a capofitto, e finivo sempre per perderlo di vista. Gigliola ci volteggiava sopra. Ma per Colli, il pais perfetto era Angelo che dalla voragine andava e veniva con leggerezza (cominciò allora a progettare il suo libro I presocratici). Un caso a parte era Olga Tulini, alta, con i capelli lisci divisi in due bande e con un profilo severo. Olga aveva un nodo irrisolto: l’abbandono del padre partito per l’America quando lei era piccolissima. Il vino aveva su di lei l’effetto di sprofondarla in quell’antico dolore e se ne stava con la testa appoggiata sulle ginocchia, isolata dagli altri.
Anche Mazzino lo ricordo coi gomiti puntati sulle ginocchia e la testa tra le mani: se ne stava così nei periodi in cui le parole che sentiva intorno a sé gli procuravano profonda sofferenza. Nel ’44, quando aveva sedici anni, Mazzino aveva accompagnato alla frontiera svizzera Giorgio Colli, in quello stesso inverno era stato fermato dai fascisti, interrogato e chiuso in cella. Qui Mazzino ci aveva ripensato, si era dato del vile, e aveva chiesto di essere rinterrogato. Questa volta aveva detto tutto quello che pensava del fascismo e dei fascisti, con la conseguenza che fu riempito di botte. Così era allora Mazzino, un radicale, afflitto da un rigore e da un senso di appartenenza senza riserve che lo cacciavano in situazioni tormentose. Negli anni dal ’45 al ’49 l’ho visto fare molti bruschi cambiamenti, dall’ateismo alle crisi religiose, al comunismo (nel 1946-47 il professor Delio Cantimori tenne alla Normale un corso su Karl Marx e Mazzino subì il fascino del professore e di Marx).
Ma quando era in pace con se stesso, Mazzino era simpatico, spiritoso, paradossale. Una volta una vicina dei Colli suonò alla porta per chiedere di abbassare il volume della musica e Mazzino, col suo sorriso disarmante, le rispose: «Ma signora, Beethoven non si può sentire che a pieno volume». Delle discussioni su Nietzsche ricordo solo cose scontate: la lettura della Nascita della tragedia, i discorsi di Colli sulla manomissione dei testi nietzschiani; ricordo invece benissimo come da un argomento marginale nacque uno scontro accesissimo. Parlando di Lou Salomé, e della infelicità di Nietzsche, Mazzino tirò fuori l’argomento della «malizia delle donne» che lui interpretava come un elemento dell’eterno femminino goethiano. Io sostenni che era paragonabile alla furbizia degli schiavi delle commedie plautine: serviva ad aprirsi un varco approfittando dell’ottusità del padrone.
Ma ricordando Mazzino non posso dimenticare la sua famiglia, i suoi fratelli, la sua casa in via dei Fossi sempre aperta a tutti noi, e soprattutto Margherita, la madre, che un giorno trovai seduta al tavolo della cucina, tutta avvilita. Era successo che la sera prima Mazzino aveva parlato di un libro di Spinoza con i suoi amici. Lei ne era rimasta così impressionata che era andata a cercarsi il libro che stava lì, sul tavolo: ma era in latino.
Quella che si riuniva a casa Colli doveva essere – come veniva ripetuto spessissimo – una comunità di eguali. Ovviamente non lo era né poteva esserlo: si alimentava del gusto per l’insegnamento di Colli, il nostro Socrate, l’ostetrico dei parti intellettuali. E, come era prevedibile, arrivò «la notte della rivolta dei paides» – è stato Nino Cappelletti, che è qui in sala, a ricordarmela –, fu una tumultuosa, allegra nottata di contestazione di Colli come maestro, capeggiata da Angelo. La cosa più divertente era la faccia sbalordita di Colli. Cappelletti mi ha ricordato anche una serata cui partecipò Fausto Codino. Si discusse dell’ironia interrogatoria di Socrate. Né Nino né io siamo riusciti a ricostruire le tesi sostenute da Colli e da Fausto. Ed è un peccato, perché i due, che erano caratterialmente agli antipodi, avevano metodi di comunicazione apparentemente inconciliabili. Colli era attentissimo a non opporre all’avversario affermazioni rigide che avrebbero portato la discussione in posizione di stallo; Fausto, cui l’ironia era congeniale – era un maestro nell’arte della bonaria simulazione d’inferiorità – amava esordire con paradossi e sconfinava facilmente nel sarcasmo.
Nell’immediato dopoguerra Lucca godeva di grande prestigio all’università, perché, alla ripresa degli studi, dei sette posti messi a concorso alla Normale, tre furono assegnati a lucchesi: Mazzino Montinari, Fausto Codino e Giorgio Giorgetti (negli anni immediatamente seguenti entrarono Angelo Pasquinelli, Pietro Giorgetti e Piero Bernardini-Bea). Giorgio Giorgetti era uno degli allievi prediletti di Delio Cantimori e non provava il minimo interesse per le idee di Colli che chiamava il simposiarca. Aveva occhi di un azzurro angelico e una faccia che sprizzava salute, ma quando apriva bocca era tremendo. Si divertiva a usare un linguaggio irritante come l’ortica. Una volta che Fausto e io stavamo nella Piazza dei Cavalieri con un vecchio professore molto accademico, lui, da una finestra della Normale ci urlò che sua sorella aveva «figliato».
Con Fausto ci vedevamo quasi tutti i giorni, insieme frequentavamo l’Istituto di glottologia: vi imparammo a conoscere la logica interna di un gran numero di lingue indoeuropee nelle quali non avremmo saputo dire neanche «buon giorno», insieme studiammo il Cours de linguistique général di Ferdinand de Saussure e mai avremmo immaginato che di lì a dieci anni sarebbe uscito dai limiti ristretti degli specializzati, insieme studiammo sanscrito e, dello smisurato Mahabharata, apprendemmo a memoria la storia di Nala che comincia così: Asid raja Nalo nama Virasema suto (C’era un re di nome Nala, figlio di Virasema). Insieme frequentammo il seminario linguistico che godeva di una certa rinomanza. Ci veniva da Firenze il professor Pasquali. Lo frequentavano Linda Bimbi e, tra i normalisti, Sebastiano Timpanaro, Marino Raicic e altri.
Fu qui che imparai ad apprezzare Fausto. Quando toccava a lui il ruolo di relatore io l’ascoltavo ammirata: usava la lingua italiana in modo meraviglioso, sapeva sfruttare benissimo il fatto di essere toscano: passava dall’understatement, dal tono bonario, alla frecciata micidiale. Aveva un’intelligenza velocissima che coglieva al volo nessi tra cose e idee lontane. Una volta si parlava del commercio marittimo greco nel VI secolo a.C. che andava dalla Colchide a Gibilterra e che toccava il porto di Mileto, e lui, con quel suo tono di modesto buon senso, osservò che forse l’attività intellettuale dei filosofi di Mileto si spiegava meglio se la si connetteva alle esigenze della navigazione in mare aperto: conoscere i movimenti delle stelle, calcolare le distanze su una mappa, localizzare i luoghi di approvvigionamento dell’acqua.
Conservo una foto che ci fu scattata mentre attraversavamo il ponte Bailey (il telaio metallico installato dagli americani sull’Arno). In quella foto Fausto sorride, malizioso e allegro come quando aveva detto una delle sue sofisticate cattiverie. Nella foto è un ragazzo sereno, e aveva tutti i numeri per essere contento di sé. Invece non lo era. In questa sala ho sentito dire di lui che aveva un fondo malinconico. Lo penso anch’io. Penso che già allora nutrisse una radicale sfiducia nella vita, aggravata da uno smisurato orgoglio: sarebbe morto prima di chiedere un piacere a un amico.
Sono andata via da Lucca nel ’49. Gli amici di allora furono gli amici di sempre. La morte di Angelo a 29 anni fu una ferita che non si rimarginò mai. Quella di Fausto mi pesa ancora per l’amarezza delle cose non dette. La rievocazione in questa sala di Angelo, di Mazzino, di Fausto, di Giorgio, di Pietro, tutti straordinari e ciascuno inconfondibile che ora abitano nel passato, mi ha, certo, provocato rimpianto, ma molto di più mi rallegro che siano esistiti. E considero una gran fortuna l’essere capitata a Lucca, diciannovenne, in quel disastroso ’44.
Archivio Giorgio Colli, Firenze.