Ricordo di Giorgio Colli
Gino Moretti
Il testo di Moretti è stato pubblicato in: Giuseppe Auteri, "Giorgio Colli e l'enigma greco", C.U.E.C.M., 2000, pp. 44-47.
Fra il 1937 e il 1940 Giorgio ed io ci siamo visti, si può dire, una volta al giorno. Un comune amico ci aveva avvicinati, Vittorio Cravetto (che alcuni ricorderanno ancora come poeta, scrittore e più tardi pittore, uno tra i fondatori della RAI -TV). Eravamo allora tutti studenti universitari e la scuola, leggera e per lo più insignificante, ci permetteva di dedicarci alle nostre attività preferite. Avendo perso ogni interesse per la matematica, esploravo il mondo letterario e umanistico, cercando aiuto da chi ne sapesse di più, molto più di me, nell'ansia di trovare un'attività che mi permettesse di esprimere me stesso senza vergognarmi. In Vittorio poeta avevo trovato un vulcano in eruzione e, da lui sopraffatto, avevo concluso che non avevo la stoffa del poeta. Frattanto avevo conosciuto Luigi Pareyson, dai quale speravo d'imparare filosofia. Ma Pareyson era troppo difficile per me; il suo linguaggio era oscuro, pieno di parole che richiedevano lunghe definizioni a base di altre parole che a loro volta richiedevano lunghe definizioni.
Quando conobbi Giorgio scoprii che la filosofia poteva essere spiegata al popolo e che le spiegazioni erano poetiche. Giorgio dunque mi riconduceva a un mondo dove la poesia non era vulcanica (e quasi incontroliata) e dove l'esercizio dei pensiero non richiedeva un'enciclopedia. Il mondo di Pareyson era angosciato e a me toccava infondervi allegria e ottimismo (forse dalla mia partecipazione alle sue sofferenze e dalla sua riconoscenza nacque un reciproco affetto che perdurò e crebbe fino alla sua morte). Il mondo di Giorgio era radioso come il cielo su un'isola greca. Per quel che mi pareva di capire dai suoi discorsi, Dioniso attizzava i miei slanci giovanili e mi stimolava a creare; Apollo mi spiegava l'arte della creazione paziente, i canoni dell'estetica e del buon gusto. Ahimè, l'alunno era soltanto pieno di buone intenzioni. Giorgio invece sapeva quel che voleva fare e, guidato dai suoi invisibili dei, procedeva sicuro. Talora ci concedevamo, verso le 10 di sera, un elaborato tè da Piatti, con pasticcini e sigarette di classe, e quelle erano serate per discorsi leggeri. Il più delle volte, però, passavamo insieme interminabili ore nel suo studio, lavorando in silenzio. Io cercavo invano di capire cosa fosse la matematica; Giorgio sedeva su una comoda poltrona, con un fascio di fogli sulle ginocchia e una matita in mano. Per lunghi minuti non faceva niente, o fumava. Poi scriveva alcune righe e le contemplava soddisfatto. Non cancellava mai. Il suo pensiero sembrava fluire attraverso la matita, in una sequenza coerente, logica e ben strutturata, senza pentimenti. Si dice che Mozart scrivesse così la sua musica, in bella calligrafia. Giorgio non aveva mai fretta. Poteva smettere e ricominciare il giorno dopo, o una settimana dopo e, riprendendo la matita, continuare la frase interrotta. Di dove cavasse la sua immensa erudizione filologica un po sapevo, ma come facesse non so. Le citazioni e le argomentazioni sottili su quale accento usare per ottenere la migliore interpretazione di un frammento presocratico scendevano dalla matita senza che mai consultasse un libro. Come faceva? Si era mandato tutto il Diels a memoria?
Tanto dubbioso ero io delle mie capacità, altrettanto sicuro era Giorgio delle sue. Io amavo la compagnia di persone che ritenevo più intelligenti di me e mi studiavo di riceverne l'affetto dando loro un po' d'allegria; non andavo mai più in là del presente. Giorgio non conosceva persone più intelligenti di sé stesso, e quindi trattava gli amici con una certa condiscendenza cercandone, più che l'affetto l'ammirazione. Non il presente ma il futuro era importante per lui: 'di me parleranno i posteri', diceva. Credeva dunque in una vita al di là della morte? Si immaginava seduto, non fra Elia e Mosè, ma fra Apollo e Dioniso, fumando una sigaretta di marca, guardando in giù e ghignando agli errori dei suoi esegeti?.
La mia indole canina mi faceva accovacciare ai suoi piedi, dimenando la coda. Senza poterlo esprimere in parole, il cane certamente si rende conto di essere soltanto un cane, e capisce che il suo padrone sta tanto più in su da non poter essere giudicato. Quando il padrone mette il guinzaglio al cane e lo porta a spasso, il cane vorrebbe esplorare l'ambiente che lo circonda; ma il padrone va innanzi sicuro perché quelle cose già le cono-sce e non val la pena di tornarci su. Delle cose che gli possono servire, il padrone si serve. Di fronte ai detti memorabili di Giorgio io mi sentivo meschino. Quando un giorno arrivò in ritardo, gli dissi (e mi sembrò di essere generosissimo) che l'avrei aspettato ancora altri venti minuti; lui ribattè: 'E io, ti avrei aspettato, sempre'. Lui diceva che bisognava 'amare infinitamente infinite persone'. Io non sapevo come ci sarei riuscito. Sapevo di amare molto alcuni amici; sapevo anche di non poter fare di più. Lui mi pareva un dio.
Forse non era vero. Gli uomini sono diversi gli uni dagli altri, e ciascuno ha virtù e difetti diversi. In breve tempo, finii per ammirare sempre più le sue virtù e irritarmi sempre più per il suo distacco dai problemi di tutti i giorni che io ritenevo importanti e di cui Giorgio non sembrava neanche rendersi conto. Fu un distacco per me assai doloroso.
Archivio Giorgio Colli, Firenze.