Alessandro Fersen, "Risalendo a Dioniso. Conversazione con Giorgio Colli"
Alessandro Fersen, Giorgio Colli
L'intervista è tratta da "La dimensione perduta - Alessandro Fersen 1957-1978", a cura di Giorgio Polacco, 1978.
Colli:
Devo premettere che il mio rapporto con Fersen, che data dai tempi della guerra, non riguarda il teatro in particolare, perchè è un rapporto completo: quello che ci dicevamo e ci diciamo può riguardare la poesia, può riguardare la filosofia, il teatro ed ogni altra cosa, ma si riferisce sopratutto ad una visione del mondo, pur nella diversità dei nostri punti di vista.
In questa prospettiva, ogni volta che ho potuto vederlo nel suo laboratorio, con i suoi attori, ho sempre seguito con grandissimo interesse il suo lavoro, perchè lo stesso interesse porto anch'io verso i giovani, e da lui ho imparato molte cose sul rapporto fra maestro e discepolo.
Fersen:
Io ho il timore che, malgrado i nostri incontri a Firenze, a Settignano, incontri, del resto, saltuari, che hanno luogo a distanza di anni, oggi possa intervenire fra noi qualche problema di lessico, nel senso che vivendo attualmente in una mia prospettiva che è quella del laboratorio teatrale, e servendomi di un mio lessico ormai acquisito, io stenti a pormi in una certa angolazione, quale è «la nostra», che è un'angolazione decisamente filosofica. D'altra parte, per me è una preziosa occasione questa, perchè non desidero chiudermi nel solo ambito teatrale e non considero il mio lavoro di laboratorio come un fatto esclusivamente teatrale.
Colli:
Se ti ricordi, già trent'anni fa, nelle nostre discussioni il discorso, spesso, si soffermava proprio sul problema della terminologia: questo è inevitabile in ogni discussione di tipo filosofico, dove il concetto è lo strumento attraverso cui si comunica e siccome il concetto si esprime in un termine, si rende necessaria una chiarificazione sul significato che al termine ognuno attribuisce. Che, poi, il linguaggio che usi con i tuoi giovani sia diverso da quello che usi con me mi sembra naturale, dato che con loro tendi a stabilire una comunicazione, non tanto concettuale e quindi legata a un uso dei termini corretto, quanto a una comunicazione di stati interiori, di una certa vibrazione di sentimento, di volontà, forse. È una trasmissione più profonda che non quella concettuale, una forma di paideia, in cui il lessico vale soprattutto come punto di riferimento. I due momenti, cioè, sono diversi: uno è il momento dell'esperienza teatrale diretta e l'altro è quello del teatro visto come soluzione filosofica della vita, e allora per la comunicazione si impone la scelta di una rosa di concetti. Siccome io da sempre ho posto la mia espressione, la mia comunicazione in un'altra sfera, ecco che tra noi, date le due sfere diverse di espressione, sempre si pongono problemi di comprensione.
Fersen:
Paideia è un termine tipicamente tuo, che ti ho sentito usare fin dai nostri primi incontri, quando discutevamo dei «tuoi» Presocratici (2) e dell' «Universo come gioco»(3). Che cosa vuol dire il termine «paideia» applicato al mio lavoro nello Studio?
Colli:
Uso il termine «paideia» proprio nel suo senso greco di educazione, di formazione umana: è, cioè, il modo in cui si trasmette un valore non soltanto contingente, transeunte, che valga per i rapporti della vita privata, ma anche un valore che vada al di là della persona. Questa trasmissione, per cui qualcosa passa da un uomo formato ad un uomo da formare, dà a quest'ultimo il senso che nella vita c'è qualcosa che va al di là dei fini immediatamente individuali: e questo lo chiamo «paideia».Quando, negli anni passati, ho assistito al tuo rapporto con i giovani, ho avuto proprio questa sensazione di una capacità di trasmissione di qualcosa di interiore, di qualcosa che per definizione è difficilmente esprimibile, ma che è essenziale per la vita dell'uomo. Ora, per un filosofo ci sono, in questo senso, gravi difficoltà per operare questa trasmissione: è inevitabile, per lui, servirsi di concetti, cioè di qualcosa che non è rispondente nè alla natura di quello che uno porta dentro di sé e che vuole trasmettere, né alla natura di ciò che l'altro recepisce. Quindi il concetto è una mediazione falsa, cioè lontana dall'originale: è un'invenzione, per così dire, intermedia che dovrebbe, da un lato, esprimere quello che c'è in partenza in chi trasmette, e dall'altro lato, dovrebbe porre chi ascolta nelle condizioni corrispondenti per ricevere quella comunicazione. Nel tuo caso, invece no: tu non ti servi di una comunicazione concettuale, tu provochi una disposizione nell'interiorità del tuo attore o discepolo mediante vari mezzi tecnici e in questo caso il ruolo del concetto è assunto da una tecnica di comunicazione espressiva di tipo teatrale, che può essere la tecnica dell'attrezzo o un'altra delle tue tecniche, che sono delle mediazioni parallele, però, in un certo senso, più vicine al concreto che non sia un concetto. Quello che mi ha molto colpito era la facilità e la sicurezza e l'esito devo dire lampante dell'operazione stessa: mentre invece per un filosofo l'esito della comunicazione rimane sempre incerto, perchè al massimo può contare su di un assenso che non è controllabile nella sua entità intrinseca: mentre nelle tue tecniche lo stesso comportamento del discepolo dimostra che la comunicazione è avvenuta.
Fersen:
Ma non pensi, da quello che hai potuto constatare, che, più che trasmettere, nel senso di trasmettere dei contenuti, io operi soprattutto nel senso di provocare una forma di autoconoscenza, cioè una rivelazione di sé stesso, in ognuno dei partecipanti a questo tipo di lavoro?
Colli:
Si, questo è verissimo. Però vorrei precisare che questo qualcosa che appartiene ad ognuno e che attraverso la tua tecnica viene scoperto, non appartiene soltanto all'individuo, ma - secondo me - costituisce, se posso dire così, l'essenza del mondo. Ecco il punto. Penetrando in questa parte più intima di noi stessi attraverso queste esperienze, noi non soltanto ci spogliamo di tutte le sovrastrutture della vita quotidiana, di quello che noi crediamo reale e che scopriamo non essere più reale, nel senso che l'interesse che portiamo per le cose che ci stanno attorno viene in questo momento a cadere totalmente e noi scopriamo questo «noi stessi» come qualcosa che non ha nulla a che fare con quella che si manifesta quotidianamente come la nostra personalità limitata: ma questo «noi stessi» profondo, ad un certo punto, non è neanche più qualcosa di individuale. Ed è in questo che consiste la comunicazione teatrale, io penso, nell'identificazione di questo «noi stessi» con l'essenza del mondo. È un discorso molto generico - me ne rendo conto... Voglio dire che questo «io» più profondo che viene a galla, secondo me, va al di là della nostra personalità e questo è l'aspetto «divino» dell'esperienza teatrale.
Fersen:
Mi sembra, mentre ti ascolto, di percepire qualche eco di quello che tu dici nell'Introduzione ai tuoi «Presocratici», dove parli di conoscenza dionisiaca, cioè di quel tipo di conoscenza concreta che è l'esperienza del vivere e che non ha niente a che fare con la conoscenza concettuale.
Colli:
Certamente. Per continuare il parallelo che tu hai fatto con la Grecia antica, posso indicare, come esemplificazione di questa esperienza, la conoscenza di Eleusi, la conoscenza misterica, che è in relazione, come tu sai, con l'origine della tragedia. Ora, in questi misteri di Eleusi, in cui Dioniso aveva così grande parte, si raggiungeva una conoscenza suprema che era una visione: una visione per la quale gli autori più antichi che ce ne parlano, non usano altro termine che quello del «vedere»: «vedrai quelle cose», veniva detto agli iniziati. Questa visione sta alla base di quell'esperienza che poi, sempre attraverso Dioniso, si è manifestata come tragedia: quindi la relazione con l'evento teatrale, in questo caso, è proprio intrinseca. Senza contare che molti elementi ci fanno pensare che nell'iniziazione misterica di Eleusi trovasse posto una specie di rappresentazione teatrale. Questa conoscenza immediata, intuitiva, sta all'origine di ogni altra conoscenza. In Grecia essa si trasmette attraverso i sapienti fino alla filosofia: cioè, tutto il pensiero astratto, il pensiero discorsivo, razionale, ha la sua origine e il suo fondamento in questa esperienza intuitiva. Esperienza retrospettiva, da cui tutto il resto dipende, e che manca a noi moderni.
Fersen:
La dimensione perduta...?
Colli:
Giusto: è un altro modo di dire la stessa cosa.
Fersen:
Sto ricollegando quello che dici alle ultime esperienze di laboratorio che vado conducendo in queste settimane. Si direbbe che certe mie tecniche riconducano alcuni dei partecipanti a ricordi ancestrali, forse ad una memoria collettiva, a un inconscio collettivo, come direbbero i seguaci di Jung. Ma anche quando l'evocazione porta in scena, se posso dire così, delle vicende individuali, ti accorgi che queste vicende individuali non sono che il travestimento di moti molto più profondi, che si valgono di questi simboli che sono le nostre passate vicende per esprimersi: in realtà, l'azione del dramma si svolge a tutt'altro livello, anche se, per manifestarsi, si serve di questo gesto personale, autobiografico.
Colli:
Parliamo allora dei ricordi, della memoria. Se andando oltre a quello che si diceva prima sulla visione eleusina, sull'origine dionisiaca sia di Eleusi sia della tragedia, noi allarghiamo lo sguardo fino alla poesia orfica e a quello che Orfeo rappresenta in questa tradizione che è radicata anch'essa nella religione di Dioniso, noi troviamo nell'iniziazione orfica - messa in grande evidenza - la divinità di Mnemosyne, cioè della «memoria», che assume un valore assolutamente metafisico. Nelle famose laminette orfiche che gli iniziati portano con sé nella tomba e che sono state appunto ritrovate in certe tombe dell'Italia Meridionale e in varie parti della Grecia, sta scritto, con formule ricorrenti, simili le une alle altre, che l'anima degli iniziati dopo la morte si presenta a dei custodi che le ordinano di bere alla fonte di Mnemosyne; chi ha bevuto alla fonte della memoria passa alla vita divina. Chi ha bevuto all'altra fonte, quella dell' «Oblio», rimane nella vita terrena. Ora, l'indicazione metafisica che bisogna trarne mi sembra molto simile a quello che dicevi tu prima: è questo tipo di memoria che ci porta al «dio», cioè a qualcosa che sta dietro di noi: ed è con questo ritorno all'indietro che noi ci ricongiungiamo con il divino. Nei greci non c'è nessuna visione storica della vita, la storia ed il passare del tempo non hanno nessun valore positivo, il positivo sta dietro di noi, non sta davanti a noi e quindi è attraverso la memoria che noi ci ricongiungiamo a Dioniso.
Fersen:
Questa «divinizzazione» di Mnemosyne, che fa della memoria una realtà superindividuale, mi pare addirittura profetica rispetto a molte cose che si dicono oggi, e si confà anche a quelloche faccio io. La mia sperimentazione, tu lo sai, si svolge su un piano concreto e porta ad una valutazione sperimentale, di laboratorio: sperimentale nel senso che nasce veramente da quello che io posso vedere ed intuire. Ma dal resoconto di quello che ognuno dei partecipanti ricorda - ed è normalmente abbastanza frammentario e confuso - emerge una dimensione che chiamerei eroica rispetto alla vita quotidiana, non perchè fatti, gesti, emozioni vengano mitizzati e diventino leggendari, ma perchè, effettivamente, attingono ad una matrice che supera l'angustia, le ristrettezze dell'«io» individuale.
Colli:
Vorrei ancora aggiungere questo: che un elemento comune, mi sembra, è la ciclicità di questo fenomeno, perchè nell'evento teatrale si attua un'esperienza assolutamente eccezionale, ma non duratura: La nostra condizione umana, a un certo punto, rompe quella magia per farti rientrare nella vita quotidiana. Ma la grande superiorità, per me, di una concezione di questo genere rispetto ad una concezione religiosa genericamente proiettata verso una vita ultraterrena, sta nel fatto che tu quella «divinizzazione», quell'esperienza definitiva, la raggiungi nella nostra vita. Siccome la qualità di questa esperienza resta la stessa, ad un certo punto la sua durata diventa un elemento secondario: quello che tu raggiungi in quell'esperienza equivale all'essere una cosa sola con Dioniso. I greci definivano questo: «bakkos», che è anche uno dei nomi di Dioniso, ma nello stesso tempo «bakkos» è colui che è diventato Dioniso, che, attraverso questa esperienza, è lui stesso Dioniso. Quindi «bakkeuein», il fare il Bacco, significa essere in quello stato di identificazione con la divinità.
Fersen:
Tradotto nel mio modo di vedere le cose e nella mia concezione del teatro, questo significa che la vera operazione teatrale, quella che tu chiami identificazione, va ricondotta ai suoi originari comportamenti rituali. Per fare questo occorre liberarsi da tutte le sovrastrutture che ci condizionano oggi...
Colli:
Ma tu sei riuscito a farlo nel Leviathan... (4).
Fersen:
Già, sei venuto a Spoleto, alla «prima». Ricordo che dopo lo spettacolo mi hai detto una frase sibillina: che ero andato «al di là del concetto»...
Colli:
Adesso è molto facile spiegarlo, dopo quanto abbiamo detto. Io di fronte a questo spettacolo ho avuto una fortissima emozione:: emozione è quello che non si può dire a parole ed è inutile che cerchiamo di spiegare in che cosa consiste l'emozione. Comunque, con quella frase, volevo dire quello che si diceva prima a proposito della «paideia»: che sei riuscito a trasmettere qualcosa di molto profondo senza alcuna mediazione concettuale: pensiamo a quello che si diceva prima del dionisiaco - ecco, il Leviathan è uno spettacolo dionisiaco, questo è il punto. Attraverso quello che vedi e che senti, sei portato fuori dal tempo, in un'altra dimensione: nel Leviathan non ci sono concetti. Anche le parole sono estremamente frammentarie, sono dei puri pretesti...
Fersen:
Dei fonemi, vuoi dire?
Colli:
No. Sono anche delle citazioni che hanno una notevole presa di carattere suggestionante, proprio perchè tramite queste parole, non necessariamente sconnesse - c'erano anche dei versi, mi ricordo dei versi dall'Edipo Re, dei versi di Shakespeare - tramite questi frammenti poetici, non in una sfera del concetto. Cioè, la parola è, si, lo strumento che comunica in questo caso e non la pura visione: però la parola è usata per suscitare un'immagine poetica, un tipo di emozione che è completamente al di fuori del concetto. Il concetto ha come sua condizione il discorso, cioè il collegamento tra le parole, quindi anche il discorso poetico diventa discorso nella sua continuità. Invece tu, non casualmente, avevi scelto dei frammenti, perchè il frammento ti dava la visione, l'immagine come tale, cioè una mediazione più vicina all'interiorità, in questo suo lampeggiamento.
Fersen:
In che senso tu usi la parola «visione» e la parola «immagine»? Non credo che tu parli di visione come fatto visivo. Mi sembra, anche in riferimento a quanto dicevi prima di Dioniso, che non si tratta di una esperienza tendente alla visualizzazione.
Colli:
Qui il discorso sarebbe complicato; comunque posso dire che nel linguaggio misterico dei greci ritorna sempre questa allusione alla visione. Tanto per dare una spiegazione un po' banale, ma che può servire sul piano corrente, mi rifarei alla distinzione tra visione data dai sensi, appartenente alla conoscenza quotidiana, e visione nel senso misterico che si apparenta all'allucinazione. Nei Greci il carattere allucinatorio della conoscenza è una cosa frequentissima. Quando nelle Baccanti Euripide dice che esse battevano col tirso sulla roccia e ne sprizzava il miele o il vino, vuol dire che esse vedevano veramente il miele e il vino e lo bevevano. Era una cosa reale per loro: questo è l'aspetto visionario del conoscere. E a proposito dei Misteri Eleusini, nel documento più antico che noi possediamo, cioè nell'Inno Omerico a Demetra, VII secolo A.C., si dice testualmente: «chi ha visto quelle cose, giungerà beato nell'aldilà ». Ci sono poi due antichissimi frammenti, uno di Pindaro ed uno di Sofocle, che usano il verbo vedere proprio in questo senso, secondo me. Non è che ci sia una degradazione nel ricondurre queste eperienze nell'ambito visivo, perchè non si tratta di una visione abituale, di una visione sensoriale, ma piuttosto di un'esperienza di tipo visionario. L'idea platonica - che etimologicamente vuol dire immagine, no? - ha questa stessa carica visionaria, allucinatoria, propria di una visione che nasce dal di dentro.
Fersen:
Ti interesserà sapere che in alcuni aspetti del mio lavoro, per esempio nel mnemodramma, che pure è parlato, si susseguono delle visioni che nessuno di noi presenti percepisce, ma che sono estremamente concrete e reali per il soggetto che in quel momento sta vivendo la sua esperienza e che vede, tocca, sente cose e persone inesistenti nella realtà.
Colli:
secondo me, questo è l'essenziale nell'origine della tragedia. Una delle cose più geniali che in proposito ha detto Nietzsche è che l'azione teatrale è un'allucinazione del Coro: il Coro nella sua emozione dionisiaca vede la scena e la scena che noi vediamo è la riproduzione di questa visione primordiale del Coro. Cioè, il mito tragico è una visione del Coro grazie a cui, dice Nietzsche, esso si scarica del dionisiaco - e su questo non sono d'accordo. Per me la visione è la cosa stessa, non stabilisco una sfera dionisiaca ed una sfera apollinea in contrasto, come sempre Nietzsche postulava: io invece vedo le due sfere molto vicine, quasi identificate. Quindi, in questo senso, se anche possiamo chiamare apollineo un certo tipo di rovesciamento visionario come il mito tragico, questo non vuol dire che esso scarichi l'angoscia dionisiaca: perchè l'uno coincide con l'altra, il mito è la faccia apollinea del fenomeno dionisiaco.
Fersen:
Ma la concezione aristotelica del carattere liberatorio della tragedia?
Colli:
Su questo carattere liberatorio io non sono d'accordo. Nietzsche lo critica, ma poi, in fondo, ci ricasca a sua volta.
Fersen:
Però, nel mnemodramma, evitando qualsiasi definizionedi carattere clinico-terapeutico che detesto, l'esperienza convalida l'esistenza di un risultato liberatorio o, se vogliamo chiamarlo così, di un arricchimento della personalità.
Colli:
Certo, perchè è un momento in cui si aderisce al fondo dionisiaco che c'è in ognuno di noi: ed è lì che nasce il teatro. Con la tua esperienza e con uno spettacolo come il Leviathan tu hai attinto a questa essenza dionisiaca e l'hai espressa in visioni.
Note
1) Per Laboratorio teatrale si intende lo "Studio Fersen", creato Da Alessandro Fersen nel 1957 a Roma. Lo Studio, fino al 1995, ha svolto un'attività ininterrotta di laboratorio teatrale, promuovendo ricerche sperimentali e seminari, allestendo spettacoli, istituendo corsi di insegnamento dove si è sviluppata la tecnica psicoscenica dell'attore che, attraverso una serie di esercizi, culmina nel mnemodramma.
2)
Con l'espressione: "i tuoi Presocratici" Fersen allude al primo libro di G. Colli Physis kryptesthai philei- Studi sulla filosofia greca. Pubblicato a Milano nel 1948. Ripubblicato da Adelphi nel 1988 col titolo, tradotto dal greco, La natura ama nascondersi.
3)
L'Universo come giuoco è il primo libro di Alessandro Fersen, pubblicato da Guanda nel 1936. Fersen ha poi pubblicato, nel 1980, per Laterza, Il teatro, dopo.
4)
Il Leviathan di Alessandro Fersen, fu prodotto dallo Studio Fersen e presentato, nel Luglio del 1974, al XVII° Festival dei Due Mondi di Spoleto. Così Fersen lo riassumeva:
«Leviathan è anzitutto uno spettacolo di ricerca realizzato con il gruppo di lavoro del mio Studio. L'arco dello spettacolo muove da una specie di eden "naif", in cui si adombra una condizione umana fatta di armonia ed autenticità; si sviluppa nel primo traumatizzante episodio di sopraffazione (Caino e Abele), in cui l'utensile arcaico diventa arma fratricida; si amplia coralmente nella progressiva proliferazione di questo cancro della convivenza umana. I corpi e gli spiriti restano coartati in aggregazioni alienanti che adombrano l'antico "mostro" biblico. Ma il Leviathan moderno porta in sé le premesse del proprio disfacimento: la "Bestia" apocalittica resta progressivamente paralizzata nel suo funzionamento. Finirà per esplodere cedendo alle spinte disgregatrici che lavorano al suo interno e nelle quali si esprime l'antica aspirazione ad una vita su misura umana. Il bateau ivre di Rimbaud, nel corso delle sue peregrinazioni, vede:
"Fermenter les marais, énormes nasses/ où pourrit dans les joncs tout un Léviathan".
Devo al ricordo di questi versi il titolo dello spettacolo.»
"La dimensione perduta - Alessandro Fersen 1957-1978", a cura di Giorgio Polacco, 1978.