Ricordo di Giorgio Colli
Mazzino Montinari
Il testo di Montinari è tratto da: "Giorgio Colli. Incontro di Studio", a cura di S. Barbera e G. Campioni, Franco Angeli, 1983, pp. 11-18.
Per la prima volta nella cronaca, ormai sterminata, dei congressi, convegni, colloqui, seminari e tavole rotonde, che si tengono nell'Italia acculturata, il nostro incontro si propone di avvicinare l'opera di Giorgio Colli. Sembra dunque che esso sia destinato ad aggiungersi alla serie delle iniziative cosiddette culturali, la cui caratteristica principale è quella di essere irrimediabilmente effimere e prive di conseguenze reali, dato che tutto - perfino il nichilismo - è convegnabile, e nella sua convegnabilità si consuma fino a diventare parola logora, rimanendo sempre non impegnativo, producendo equivoci pretesti per un quarto d'ora di dibattito radiofonico o televisivo, per lo spazio di un giorno in terza pagina o di una settimana in rotocalco. Pensando a questo, quando l'assessore Menichetti mi informò del suo progetto, rimasi sorpreso, o piuttosto perplesso sulla opportunità di una simile iniziativa, che aveva per oggetto il filosofo e l'uomo meno avvicinabile, meno convegnabile che si potesse immaginare. Credo, del resto, che pensieri analoghi siano venuti a tutti coloro che hanno conosciuto Colli personalmente, lo hanno letto, e hanno accettato di venire a Pisa per discutere sulla sua opera. L'occasione insolita del nostro incontro doveva, a mio parere, essere detta fin dall'inizio, per sottolineare la difficoltà del nostro tentativo che è quello di rievocare la presenza solitaria e incomoda, inattuale e inquietante di Giorgio Colli, della filosofia stessa come lui la intendeva, nel nostro tempo. Della possibilità di compiere questo tentativo siamo grati alla Provincia di Pisa e all'assessore Menichetti. Per quanto mi riguarda, vorrei cornpromettermi con un ricordo di Giorgio Colli che è largamente personale.
Non nella scrittura vedeva Giorgio Colli il fine della sua vita, bensì nell'azione. E l'azione cui egli aspirava non era azione politica, neppure nel senso più alto che questa parola potrebbe avere, bensì era la formazione di una comunità di eletti e di eguali, uniti sotto il segno della cultura. Cultura intesa come vita filosofica secondo un modello antico, classico, greco. Ciò spiega come mai egli abbia scritto il suo primo libro sulla filosofia greca Physis kryptesthai philei, dedicata alla memoria di Friedrich Nietzsche, nel 1948, e il suo secondo, Filosofia dell'espressione, sia uscito solo venti anni dopo.
Tra il 1949 ed il 1969 stanno tre grandi tentativi di azione: all'inizio degli anni '50 la fondazione di una collana di classici della filosofia per l'editore Einaudi di Torino, una collana scientifica, altamente specializzata, nella quale uscirono: la Critica della ragione pura di Kant e l'Organon di Aristotele (nella traduzione e col commento critico testuale di Colli stesso); i Presocratici di Angelo Pasquinelli, che fu - insieme a me - suo allievo al liceo classico di Lucca fin dal 1942 e morì poi prematuramente a trent'anni, senza poter terminare il suo lavoro; l'Epicuro di Graziano Arrighetti oggi filologo all'Università di Pisa. Sul finire degli anni '50 questo progetto grandioso, che prevedeva l'edizione e la traduzione di Aristotele giovane, Platone, Spinoza, Malebranche, Schopenhauer, Nietzsche, fu abbandonato per dissidi con l'editore.
Nel 1957, nata la nuova casa editrice di Paolo Boringhieri a Torino, Colli dette inizio al suo secondo tentativo, l'«Enciclopedia di autori classici», una raccolta di buone traduzioni di classici della filosofia, della storia, della scienza, della letteratura, della religione: Platone e Gorgia e Aristotele, Cartesio e Pascal, Spinoza e Malebranche, Schopenhauer e Nietzsche ed Emerson, Burckhardt e Taine, Newton e Fermat e Boyle, Adam Smith e l'abate Galiani, Freud e Einstein, Voltaire e Montesquieu, Stendhal, Goethe e Hölderlin, Machiavelli e Leopardi, e infine tutte le Upanishad antiche, i testi del canone buddhistico, classici della religiosità ebraica ed araba, medievale; più di cento volumi furono pubblicati tra il 1958 e il 1964. Forse fu questo il tentativo culturale di più vasta 'portata. Ne cominciammo a parlare 'nel 1956, l'anno in cui la morte improvvisa di Angelo Pasquinelli ci riunì di nuovo.
E qui sia aperta la parentesi personale e compromettente. Ho già accennato al fatto che Giorgio Colli era stato nostro professore di filosofia al Liceo classico, dal 1942 al 1945. In questo periodo della primissima giovinezza era avvenuto il nostro incontro: la guerra, la resistenza contro il fascismo, la prima lettura di Nietzsche, di Platone, di Kant, la prima musica (Beethoven), la prima scoperta del sentimento dell'amicizia (con Giorgio e Angelo): tutto questo aveva segnato un'impronta indelebile nella mia vita, a partire dal quattordicesimo anno di età. Tuttavia, finito il liceo, si aprì per me una parentesi nei rapporti con Giorgio Colli.
A Pisa, dove dal 1945 avevo intrapreso gli studi universitari nella facoltà di lettere e filosofia (alla Scuola normale superiore), cominciai ad occuparmi di politica, iscrivendomi al Pci, e ad accostarmi a una visione storicistico-marxista del mio lavoro e della mia vita, tanto è vero che dopo un anno di studi filosofici passai allo studio della storia sotto la guida di Delio Cantimori. Quando Colli divenne docente di storia della filosofia antica a Pisa, nell'autunno del 1949, io avevo concluso i miei studi e (dopo un soggiorno di studio a Francoforte) nell'autunno del 1950 cominciai a lavorare come redattore nelle Edizioni Rinascita a Roma. Da allora data la mia attività di militante e funzionario del Pci, durata fino alla fine del 1957. A quell'epoca di certezze politiche e - se vogliamo - ideologiche, devo ancora oggi irrinunciabili pregiudizi a favore di una militanza nel partito e contro il sinistrismo radicale piccolo-borghese. Tuttavia la scuola di senso della storia (Cantimori), insieme al senso politico dei comunisti italiani, impedivano a noi giovani militanti di quella generazone di «credere» in utopie rivoluzionarie.
Certamente le contraddizioni sanguinose del socialismo, in seguito chiamato reale, dal 17 giugno 1953 - da me vissuto personalmente nella Ddr a Berlino - alla repressione dell'insurrezione ungherese nell'autunno del 1956, cominciarono a delimitare dolorosamente e rigorosamente ai miei occhi la sfera dell'azione politica. Mi resi conto cioè che la politicizzazione totale in cui avevo vissuto fino a quel momento era un errore (anche politico). Aiutato da Thomas Mann e da una rilettura (questa volta manniana) di Nietzsche, mi sembrò di poter distinguere la sfera politica da quella della cultura, essendo quest'ultima distinta e in contrasto, sia pure entro una totalità storica, con la prima, la sfera dello Stato. In altri termini pensare politicamente (per agire concretamente nella realtà del mio paese) continuò e continua a significare per me essere comunista mentre si affermava, d'altro lato, un mio prevalente interesse non più per l'azione politica, bensì per quello che ho chiamato cultura (in senso burckhardtiano). (Questa distinzione, addirittura arcaica rispetto a più moderne e totalizzanti visioni del mondo e filosofia, è ancor oggi mia propria). Il rinnovato incontro con Giorgio Colli mi aiutò a portare a termine questo processo di chiarificazione su me stesso. Alla fine del 1957 cessai la mia attività di funzionario del partito, e dal 1° gennaio del 1958 mi trasferii a Firenze, per lavorare coll'amico ritrovato.
Colli, dunque, nel 1956 mi aveva esposto il suo programma di azione culturale, che avrebbe preso forma nell'«Enciclopedia di autori classici». Si trattava di formare una sorta di comunità nuova di lettori e di collaboratori, pubblicando dei testi che alla intellettualità accademico-politica dominante non potevano che risultare inattuali e fuori moda, anzi in certi casi addirittura irritanti o scandalosi. Si era nel 1958, e allora non esisteva certo né in Italia, né in Francia, né ancora meno in Germania una Nietzsche-Renaissance. Ma noi cominciammo proprio con un testo di Nietzsche Schopenhauer als Erzieher (che io tradussi). Ad ognuno di questi testi era premessa una brevissima prefazione di Colli, in cui egli cercava di spiegare le ragioni della scelta di quel testo determinato e con cui dava una certa unità a quella specie di canone di letture per «spiriti liberi», per spiriti cioè capaci di leggere testi non destinati al consumo ideologico immediato: gli scritti sulla teoria della natura di Goethe e la teoria dei colori di Schopenhauer, il saggio di Pascal sull'equilibrio dei liquidi e la disputa Leibniz-Newton sul calcolo infinitesimale, la Legazione al duca Valentino di Machiavelli e il Dialogo sul commercio dei grani di Galiani, i Parerga di Schopenhauer i carteggi Nietzsche-Rohde, Nietzsche-Wagner, Nietzsche-Burckhardt, i testi religiosi indiani, arabi, ebraici e paleocristiani, ecc. ecc.
È impossibile dare anche solo un'idea della vastità di un'impresa concentrata praticamente nel giro di sei anni di lavoro. E io non saprei neppure misurarne il successo. Era un'azione controcorrente, ma la corrente opposta sembrava mancare, quando si leggevano le rare recensioni: il buon costume delle polemiche letterarie è andato perduto in Italia da decenni. Quei testi sono oggi introvabili nelle librerie; si deve perciò pensare a una loro azione sotterranea. Per Colli fu quello un periodo ricco di incontri nuovi, soprattutto con collaboratori che avevano da proporre questo o quel testo e che stabilirono con lui rapporti più o meno duraturi. Una ideale comunità di lettori fedeli si era formata.
Intanto fin dal 1958 Colli stava preparando un'altra iniziativa culturale-editoriale: la traduzione in italiano delle opere complete di Nietzsche. La mancanza di un testo attendibile delle carte postume, la insostenibilità filologica della Volontà di potenza di funesta memoria, un sopralluogo a Weimar nella Rdt (dove i manoscritti di Nietzsche sono esemplarmente conservati nell'archivio Goethe-Schiller) indussero il mio amico a trasformare radicalmente il suo piano: invece di una traduzione italiana avremmo preparato il testo critico tedesco delle opere e dei frammenti po-stumi di Nietzsche. Gli editori tedeschi consultati nel 1961 non vollero appoggiarci. Grazie a Gallimard (Parigi) e Adelphi (Milano), che volevano pubblicare traduzioni complete di Nietzsche sulla base di testi sicuri, il nostro lavoro a Weimar e a Firenze poté essere finanziato a partire dal 1962. Senza Gallimard e Adelphi (Luciano Foà e Dionys Mascolo), dunque, l'attuale edizione de Gruyter non esisterebbe. Fu più tardi merito di Heinz Wenzel, direttore del settore storico-filologico di de Gruyter, l'aver ri-conosciuto nei 1965 l'importanza del nostro lavoro a Weimar. Così nel 1967, due anni dopo la traduzione italiana e un anno dopo la francese, cominciò a uscire 'la nuova edizione critica tedesca di Friedrich Nietzsche. Questo terzo tentativo di azione culturale del mio amico è quello che ha avuto la maggiore risonanza non solo in Italia ma su scala internazionale. Infatti, se nel 1958-61, quando noi preparavamo la nostra impresa eravamo soli con i nostri pochi e come noi oscuri collaboratori italiani (Maria Ludovica Pampaloni, Sossio Giametta e in seguito Mario Carpitella, tutti e tre «pescati» tra i migliori collaboratori dell'Enciclopedia di autori classici), una decina di anni dopo la situazione era radicalmente cambiata. Oggi si può, anzi, dire che un nuovo mito di Nietzsche si stia formando entro una specie di gigantesco sincretismo culturale, che mescola insieme elementi dell'ideologia conservatrice con elementi di origine marxista o sinistroide: Carl Schmitt e Walter Benjamin, Theodor W. Adorno e Ernst Jünger, Bertolt Brecht e Gottfried Benn, Karl Marx e Martin Heidegger, e dappertutto - Nietzsche.
Ma per Colli l'uso peggiore di Nietzsche era questa attualizzazione contaminante.
A questo ritorno di Nietzsche ha tuttavia dato un contributo importante proprio la nostra edizione. La mia opinione e la mia speranza è che essa, in quanto proposta di lettura critica della filosofia nietzscheana, non abbia ancora maturato tutti i suoi frutti. L'edizione da sola non potrà certo evitare strumentalizzazioni e forzature nella lettura di Nietzsche, così come del resto le vecchie cattive edizioni non impedirono importanti e non ignorabili letture di Nietzsche (Löwith, Jaspers, Heidegger, Fink, Andler, Salin).
Caratteristica di Colli è di essere rimasto ancorato saldamente al suo Nietzsche, di non aver preso praticamente atto di nessuna delle interpretazioni francesi, americane o tedesche degli ultimi tempi e nemmeno di quelle anteriori.
Gli Scritti su Nietzsche, usciti postumi nel 1980, ci illuminano sul modo con cui Colli leggeva il suo filosofo. Essi sono stati originariamente pubblicati in appendice ai vari volumi delle opere di Adelphi; sono perciò aspetti di quella azione culturale che l'edizione italiana è stata per Colli. Non sono commenti o interpretazioni, ma piuttosto prese di posizione nei riguardi delle varie opere di Nietzsche, dialoghi con un grande interlocutore. Essi sono resi possibili dal distacco con il quale Colli riesce a guardare il suo filosofo. Giorgio Colli è più classico, più greco di Nietzsche e perciò non ha bisogno della polemica antiromantica del suo autore, né si cura di affermare la propria inattualità, come invece fa Nietzsche; non ha l'ipoteca del germanesimo sulle spalle e quindi gli entusiasmi di Nietzsche per la cultura francese, soprattutto quella del XIX secolo, gli sembrano eccessivi; non è moderno né cristiano, di conseguenza non può scendere a compromessi con il «senso storico» né condividere i furori dell'Anticristo; non è né socialista né reazionario, ma semplicemente ignora la politica, mentre Nietzsche non riesce a ignorarla e vaneggia di grande politica; infine i suoi educatori al pensiero speculativo sono il Platone del Parmenide (e gli eleati stessi), l'Aristotele del'Organon, l'Etica di Spinoza, il Kant della Ragione pura (letto in pieno accordo con Schopenhauer), sicché egli non può che sentire come improvvisate le «scoperte» gnoseologiche e speculative dell'ultimo Nietzsche. E tuttavia solo questo Colli poteva scrivere su Nietzsche le parole definitive:
«Nietzsche è l'individuo che da solo ha sollevato il livello complessivo dei nostri pensieri sulla vita, ed è riuscito a questa con un distacco prepotente dagli uomini e le cose che lo circondavano, cosicché noi siamo costretti a partire dal piano che lui ha imposto. La sua voce copre ogni altra voce del presente; la chiarezza del suo pensiero fa apparire sfocato ogni altro pensiero. Per chi si è sciolto dalle catene, e nell'arena della conoscenza e della vita non conosce tiranni, soltanto lui conta.»
A partire più o meno dal 1967 Giorgio Colli ritiene conclusa per l'essenziale la sua terza grande iniziativa di cultura rivolta verso il pubblico: l'«azione Nietzsche». Un quarto piano d'azione internazionale, quello di una enciclopedia dell'antichità classica (che avrebbe dovuto superare per dimensioni e migliorare per organicità della struttura il pur imponente Pauly-Wissowa), non divenne realtà.
Dopo un soggiorno praticamente ininterrotto a Weimar dal 1963 al 1970 - durante il quale lavoravamo in stretto contatto sia per lettera, sia durante le settimane in cui, ogni anno, Colli veniva a Weimar -, io tornai a Firenze.
Nel 1969 Colli aveva pubblicato la Filosofia dell'espressione, la sua principale opera teoretica. Questa pubblicazione significava, per chi come me viveva vicino a lui, il lento affermarsi di una decisione: ricorrere alla scrittura propria, chiudere a malincuore il periodo dell'azione. Non perchè l'azione fosse fallita o da ritenersi chiusa con successo; questo non si poteva stabilire in alcun modo: l'azione aveva avuto in se stessa tutto il suo valore e i suoi effetti si stavano facendo sentire nelle forme più varie. L'effetto più importante, nel quale Colli fin dal 1957 aveva sperato, la costituzione reale di una comunità di eletti e di eguali - però - non era stato raggiunto. Ora Colli parlava di una rivista che avrebbe potuto funzionare in quella direzione e che per essere davvero «azione» avrebbe dovuto essere settimanale. Questo progetto restò una meta lontana: per il momento mancava ogni presupposto, personale e materiale. Ogni libro di Colli - così Dopo Nietzsche (1974), così La nascita della filosofia (1975) - è a ben vedere un surrogato dell'azione, non è «letteratura» che si rifaccia ad altra «letteratura», ma sotto la forma della letteratura (in quanto si tratta di cose scritte), noi sentiamo l'esortazione a vivere diversamente, a vivere una vita degna di eterno ritorno.
Intanto un altro campo d'azione si era aperto a Colli, a partire dai primi anni '70. Gli studenti, rari ed eletti tra il 1949 e la fine degli anni 60 (alcuni di loro divennero collaboratori dell'Enciclopedia di autori classici), diventavano sempre più numerosi. Nell'Università di Pisa Giorgio Colli non aveva mai avuto il riconoscimento dei suoi colleghi (né lo aveva chiesto). Invece gli studenti accorrevano ora alle sue lezioni, egli poteva contare ogni volta su almeno un centinaio di ascoltatori; qui si formavano nuovi rapporti con anime giovani; forse nuove prospettive si aprivano. Il Colli di questi anni è, tuttavia, isolato, e i contatti con gli amici sono rari (anche con me). Egli rivolge il suo sguardo al passato, alla Grecia arcaica della nascita della filosofia. Nasce così il grandioso progetto della Sapienza greca, concepito in undici volumi, a raccogliere i testi sapienziali greci prima di Socrate. Due volumi di straordinaria novità (anche filologica) escono nel 1977 e nel 1978; all'inizio del 1979 la morte interrompe questa nuova impresa, il volume su Eradito uscirà postumo (1980). Nessuno è in grado di portare a termine ciò che qui Colli ha cominciato. Quando Colli sembrò allontanarsi massimamente dal presente e dall'azione, quando volle ricostruire la sapienza antica prima della scrittura, proprio allora - ancora una volta - egli agi, nel senso in cui aveva sempre inteso agire: restaurando l'autenticità del pensiero nelle sue origini, evocandone così la presenza nell'epoca dell'oblio di quelle origini, senza concessioni alcune a scuole di filosofi o di filologi o di storici, senza «colloquiare» con la «letteratura», nemmeno quella scientifica che egli pur conosceva perfettamente, ma interrogando da solo i testi, le reliquie della Grecia arcaica. E ciò voleva dire lavoro continuo nello studio di S. Domenico presso Fiesole, almeno dieci ore al giorno; ciò voleva dire solitudine e silenzio.
Devo chiedere scusa ai miei ascoltatori di aver dato un tono forse troppo privato a questo ricordo di Giorgio Colli; per di più non credo di aver raggiunto l'obiettivo di evocare realmente la sua persona. Questa persona, al di là di ogni più che lecita, anzi doverosa discussione critica sui suoi libri, è per così dire inconfutabile, come disse una volta Nietzsche a proposito dei grandi filosofi. Ma, se dovessi dire lo stato d'animo che ha dettato il mio ricordo, potrei solo citare il Canto dei sepolcri nietzscheano: «Laggiù è l'isola dei sepolcri, la silenziosa; laggiù sono anche gli avelli della mia giovinezza. Là voglio portare una corona sempreverde della vita. Con questa decisione nel cuore attraversai il mare».
"Giorgio Colli. Incontro di Studio", a cura di S. Barbera e G. Campioni, Franco Angeli, 1983